LA SCHIUMA DEL RIGASSIFICATORE: il caso di Porto Viro (Rovigo). Intervento del Biologo Carlo Franzosini
riproduciamo un articolo del blog la Bora
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Porto Viro e la schiuma del rigassificatore
http://bora.la/2011/08/25/porto-viro-e-la-schiuma-del-rigassificatore/
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Pubblichiamo la segnalazione di Carlo Franzosini, biologo dell’Area Marina Protetta di Miramare
È ancora recente la notizia – apparsa sulle edizioni regionali di alcuni tra i quotidiani più diffusi – che segnala le prime ricadute ambientali “macroscopiche” occorse a seguito dell’entrata in funzione del rigassificatore al largo di Porto Viro. La pagina on-line del “Corriere del Veneto” del 26 luglio riportava il seguente titolo: “Schiuma vicino al rigassificatore, indagati due dirigenti di Adriatic Lng – La procura ha chiuso le indagini sull’inquinamento del mare al largo di Porto Levante. Secondo i magistrati si trattava delle conseguenze di raffreddamento del gas metano”.
Come noto, la nostra area è attualmente interessata da 3 progetti di rigassificatori: uno in Slovenia, uno on-shore (Zaule), uno off-shore (al largo di Grado) oltre che dal gasdotto di collegamento. Questo tipo di impianti viene generalmente proposto nella configurazione “a ciclo aperto”: si preleva acqua di mare per sottrarle il calore che serve a riportare allo stato gassoso il Gnl (arrivato via nave sotto forma liquida, a -162°C), restituendola poi al mare più fredda e clorata. Questo comporta una sterilizzazione quasi totale della massa d’acqua adoperata, per via degli shock meccanico e termico (a questi sono da imputare le schiume al largo della foce del Po), a causa dell’impiego di cloro che implica il rilascio di sostanze tossiche (i cloro-derivati organici), infine per la perdita dei servizi ecosistemici forniti dall’habitat marino (autodepurazione, assorbimento di CO2, habitat di specie ittiche). Adriatic Lng – la società che gestisce l’impianto di Porto Viro – prima che iniziassero i lavori di realizzazione del terminal aveva valutato il tenore del disturbo ambientale che l’impianto andava a causare al territorio circostante, arrivando nel febbraio 2008 ad un accordo con gli Enti locali “per la compensazione territoriale destinata al Polesine e legata all’insediamento del terminal”. Si tratta in tutto di 12,1 milioni di euro di cui 2,45 per il comparto della pesca professionale, che si è visto imporre una nuova zona di interdizione dell’attività.
A onor del vero, l’impianto proposto a Capodistria è l’unico, della decina di progetti che interessano tutto l’Adriatico, che funzionerebbe “a ciclo chiuso”: i progettisti, consci dei problemi ambientali di questo litorale, non ricorrerebbero all’impiego di acqua di mare ma ricaverebbero il calore utile alla rigassificazione da altre fonti. Ad esempio la combustione di un’aliquota marginale del gas conferito in impianto (ne basta l’ 1,3%!) è sufficiente per riportare il metano dalla fase liquida a quella gassosa. A Capodistria – al di là di evidenti e ben più seri problemi di sicurezza per le zone abitative ed industriali, analoghi a quelli del sito di Zaule – c’è di buono che almeno questo aspetto è stato tenuto in considerazione. Ma è da qualche anno ormai (dal 2000) che, con decreto del Ministero dell’Ambiente, la Regione Veneto ha ottenuto il divieto dell’utilizzo del cloro come “agente antifouling” nei circuiti industriali che scaricano in laguna di Venezia, in considerazione dei problemi che questa sostanza causa alle biocenosi di un habitat tanto delicato.
Orbene, l’Adriatico è un mare semi-chiuso, considerato sotto più aspetti quale “zona ecologicamente sensibile”. Gli impianti proposti, che in questi tempi procedono nel loro iter autorizzativo, consumano notevoli quantità d’acqua di mare (si dice l’equivalente, in un giorno e per ciascuno di essi, di un palazzo di 20 piani avente per base Piazza Unità). A questo punto è giunto il momento di valutare se è il caso di estendere la limitazione in vigore in laguna di Venezia a tutti i Paesi dell’Adriatico, per impianti di questa “voracità” là dove esistono alternative tecnologiche percorribili (il cosiddetto “ciclo chiuso”), anche se si dimostrano economicamente meno convenienti (ma lo sono di ben poco !) per il gestore dell’impianto. I rigassificatori, se servono, vanno fatti a condizione di essere seri nella valutazione d’impatto ambientale e non prendendo acriticamente per buone le sole proposte dei proponenti. Questi ultimi, nel dover scegliere tra un minor impatto e un maggior profitto, di sicuro non hanno perplessità. Ma i gestori del “bene comune” ….?
Carlo Franzosini
giovedì 25 agosto 2011
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